<br /> - Michele Zizzari

Cerca
Vai ai contenuti

Menu principale:

<br />

Sinossi Opere teatrali

Cuori di strada


Cuori di strada
è il sesto lavoro teatrale realizzato dalla Compagnia del Dirigibile, composta da pazienti e operatori del Centro Diurno Psichiatrico di via Romagnoli del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Forlì. È un musical hip hop sul mondo giovanile delle periferie urbane, una metafora del conflitto ben più ampio tra le aspettative ideali e più immediate delle nuove generazioni di emarginati e una società invece sempre più dedita al consumo e al profitto. Gli Strike e le Naif  (due piccole bande giovanili) si contendono il predominio dei muri scalcinati del quartiere in cui vivono. Dopo una serie di scontri giungono però a unirsi per far fronte alla decisione del Comune di sgomberare e demolire la loro area urbana per costruire un gigantesco centro commerciale.
Lo scontro fisico con l'Istituzione (che dalla sua ha la legge e i manganelli) è però impari. La soluzione non può quindi che essere trovata a un altro livello e attraverso il dialogo con la società nel suo insieme, che a teatro è rappresentata dal pubblico, chiamato a esprimersi in diretta (un po' come faceva il coro nella tragedia greca) sulle sorti del conflitto.

Oltre ad essere un lavoro dedicato ai giovani delle periferie urbane e ai loro desideri Cuori di strada è una metafora sul pregiudizio, che puntualmente scatta nei confronti di coloro che - per un motivo o per un altro - ci appaiono diversi, e quindi - per un meccanismo automatico di diffidenza e di difesa  - pericolosi. Magari solo per l’abbigliamento che indossano. Ciò avviene per il malato e per il “matto” (ad esempio la malattia, soprattutto quella mentale, è ancora vissuta come una colpa), per i popoli migranti e anche per quei giovani che meno fortunati di altri vivono condizioni di emarginazione. In tutti questi casi il pregiudizio cova e si alimenta di luoghi comuni e nella paura (spesso ingiustificata e perfino suffragata dai media) che nasce dalla non conoscenza delle persone, della loro cultura e delle problematiche sociali e psicologiche da cui sono investite. Poi la scarsità di occasioni di incontro, le difficoltà di comunicazione, di dialogo e di un confronto reciproco sereno fa il resto; lasciando crescere preconcetti e stigmatizzazioni a dir poco superficiali, in base ai quali chi passeggia canticchiando è matto, chi è magrebino è stupratore, chi ha l’orecchino è spacciatore e chi è napoletano come me è per forza “nu mariuolo”.  

Attraverso questa semplice storia si vuole far dialogare e avvicinare mondi che non comunicano. Non volevamo però tornare a parlare di noi, per evitare di ridurre tutta la questione del pregiudizio alla sola sfera della sofferenza psichica, ma per allargare il discorso alla società e a un’altra categoria sociale spesso vittima come noi del pregiudizio. Allora abbiamo deciso di parlare di questi giovani, anche perché la cronaca internazionale (vedi la rivolta dei ghetti parigini), quella nazionale (vedi le polemiche sui centri sociali) li ha portati prepotentemente alla ribalta.
Non è stato facile mettersi nei panni di protagonisti così giovani, ma ci abbiamo provato, ascoltando e ballando la loro musica, l’hip hop. Ma l’essenza del teatro è proprio questa: quella di imparare a mettersi nei panni dell’altro, a comprenderlo, ad accoglierne le ragioni e ad accettarlo. E lo abbiamo fatto non senza provare il brivido piacevole dell’adolescenza e la sensazione di tornare un po’ più giovani di quello che siamo. Ma anche riprovando quel senso strano d’incertezza (che ancora ci appartiene), quella ingenuità genuina e quella spinta ideale autentica che - al di là delle apparenze a volte provocatorie e marziane - caratterizzano i più giovani. Caratteristiche esistenziali che - una volta adulti – abbandoniamo, dimentichiamo e non siamo più capaci di riconoscere e comprendere, o per necessità o peggio ancora per interesse.

Alla realizzazione dell’opera collaborano anche gli studenti dell’Istituto Statale d’Arte di Forlì guidati dall’insegnante Cristian Casadei, che – seguendo uno schizzo e il soggetto teatrale del regista Michele Zizzari – realizzano l’ambientazione scenografica.

Cuori di strada
viene rappresentato nel 2006 al Teatro Comunale di Cesenatico e nel 2007 al Teatro Diego Fabbri e al Piccolo di Forlì per l’8a edizione del Cantiere Internazionale Teatro Giovani diretto da Walter Valeri (docente di teatro a Harvard) e promosso dall’International Theater Center of New England-USA, dall’Università di Bologna e dal Centro Studi Teatrali dell’Università di Forlì; al Padiglione delle Feste di Castrocaro Terme per la 9a edizione del Festival del Teatro Sociale Proscenio aggettante (dove riceve i premi per la miglior regia e la miglior scenografia) e al Teatro Raffaello Sanzio di Urbino per la 2a edizione del Festival Le visioni del cambiamento 2007 di Pesaro e Urbino, promosso dalla rivista Teatri delle diversità diretta da Vito Minoia ed Emilio Pozzi (docenti universitari tra i massimi esperti di Teatro Sociale), dall’Ass. Teatro Aenigma, dall’Ass. Nazionale dei Critici di Teatro, dall’Università di Urbino e dai Ministeri della Salute e della Solidarietà Sociale.


Trama e contenuti
- Pur condividendo la stessa sorte, le stesse condizioni sociali (quelle tipiche delle periferie urbane) e gli stessi valori di strada, due bande di giovanissimi emarginati si contendono il predominio dei muri scalcinati del quartiere in cui vivono, sui quali pongono i simboli e i graffiti che li caratterizzano come gruppo. Gli Strike ascoltano un hip hop aggressivo e manifestano un comportamento violento e maschile, mentre i Naif amano un hip hop più eclettico e melodico e si rifanno a un immaginario più improntato alla fantasia, alla solidarietà e all’universo femminile. Non a caso a capo degli  Strike c’è un ragazzo che tende a risolvere ogni questione con la forza, mentre a capo dei Naif una ragazza più propensa al dialogo e alla soluzione creativa dei conflitti. La vicenda però li vede impegnati in una serie di provocazioni che culminano in uno scontro fisico violentissimo, durante il quale la stanchezza, le botte e la notte li fanno cadere esausti  l’uno nel corpo dell’altro. All’alba il brusco risveglio. Sono infatti sorpresi, addormentati e senza forze, da una squadra di edili armati di manganello incaricati dalle autorità a ripulire l’area delle costruzioni fatiscenti preesistenti e da ogni presenza umana sgradita per avviare il cantiere per l’edificazione dell’ennesimo centro commerciale. I componenti delle due bande fino ad allora rivali, colti abbracciati l’uno all’altro, si vedono costretti ad aiutarsi vicendevolmente per sottrarsi a una feroce repressione. Ma, non potendo opporre che una debole resistenza, vengono sgombrati e allontanati. La nuova situazione li avvicina e unisce. Comprendono che al di là di alcune differenze apparenti, in realtà condividono le stesse vicissitudini esistenziali, i medesimi sentimenti e desideri, gli stessi ideali umani e sociali e che spesso il conflitto è solo dettato dalla difficoltà e dall’incapacità di confrontarsi e parlarsi. Tra loro si fanno strada la comprensione, la solidarietà, l’amicizia, l’amore. Nulla però possono contro la forza coercitiva di un potere sordo e insensibile alle reali esigenze delle persone, contro quei progetti economici imposti dall’alto interessati solo al profitto. L’unica soluzione – non a caso proposta dalla leader dei Naif – è abbattere la quarta parete, quella del teatro, per uscire dalla finzione e permettere al pubblico di intervenire nella vicenda. La soluzione del conflitto – in una sorte di referendum popolare – viene così messa nelle mani degli spettatori (in quanto campione rappresentativo della società civile), che qui assume più o meno la stessa funzione che nella tragedia greca aveva il coro.

La questione a loro posta è questa: Questa sera sarete voi a decidere. Come volete che finisca questa storia? Cosa desiderate veramente far nascere in questo ipotetico quartiere? Un centro commerciale o un centro sociale dove noi tutti potremo liberamente incontrarci? Questo “destinarsi” al cuore della gente ha una valenza simbolica molto forte: è la speranza in noi stessi, nell’umanità, nella libera coscienza delle persone e della comunità civile.
I temi affrontati sono tanti e di diversa natura, e anche le chiavi di lettura dell’opera si snodano su diversi piani: psicologico, culturale, sociale. Naturalmente - trattandosi di un musical – i dialoghi sono ridotti al necessario e la storia viene prevalentemente raccontata ed espressa dai corpi, dalle coreografie e dalle scenografie, dai balletti, dalle canzoni e dalla musica.

Approfondimenti - Cuori di strada nasce dal desiderio e dall’esigenza di lavorare sul corpo e sul ritmo.
Nel corso della nostra esperienza abbiamo sempre alternato lavori drammatici fondati sul racconto e sulla parola a lavori più improntati sul movimento, sul ritmo e sull’espressività corporea. Del tutto naturale quindi l’idea di allestire un musical, come avevamo già fatto con successo qualche anno fa; e il ricordo del divertimento che quel lavoro regalò a tutti noi ha finito per convincerci che era la cosa giusta da fare. Come riferimento avevamo i famosissimi West side story, Saranno famosi, La febbre del sabato sera, Grease e così via;  ma ci sono sembrati un po’ datati, anche dal punto di vista musicale. Non volevamo fare un revival, ma raccontare una storia che riguardasse il presente, l’attualità, le istanze di generazioni più contemporanee, e i media ci hanno dato una mano. Le notizie delle rivolte dei giovani emarginati parigini e le polemiche sui centri sociali giovanili nostrani (da Torino a Milano, da Bologna a Forlì) erano spesso sulle pagine dei giornali, anche di quelli locali, e nei titoli dei telegiornali. E così leggendo e commentando gli articoli dei quotidiani e i tiggì abbiamo trovato i protagonisti più appropriati per il nostro musical.
Ce li offriva la cronaca, che - al di là dei diversi punti di vista - marcava il profondo disagio che attraversa il mondo dei più giovani, un malessere molto diffuso, soprattutto tra quelli meno fortunati che vivono nelle periferie urbane delle grandi città in condizioni di forte precarietà e di emarginazione. Situazioni problematiche a cui la società non riesce ancora a dare risposte adeguate, prodotte dal pregiudizio e dalla disuguaglianza sociale.
Noi abbiamo pensato che avevamo qualcosa in comune con loro, e abbiamo cominciato ad ascoltare meglio e a ballare la loro musica, l’hip hop, che comunque molti di noi già amavano ascoltare. Abbiamo pensato di avere qualcosa in comune con loro per il semplice fatto che il pregiudizio e la disparità delle opportunità producono sempre malattia, sofferenza psicologica e sociale, diritti negati, emarginazione, indipendentemente dai soggetti verso cui è rivolto.
Ad esempio c’è pregiudizio nei confronti della malattia, ancora vista e spesso vissuta come colpa.

Molte volte la malattia nasconde una connotazione sociale. Il “malato” (tra virgolette) è spesso discriminato, evitato e isolato, anche quando la malattia non è contagiosa. Ciò accade al “malato di mente” (sempre tra virgolette), al disabile, all’omosessuale, al “sieropositivo”, a chi contrae un tumore, a chi si ammala di vecchiaia o di povertà (perché anche la senilità e la povertà sono oggi considerate alla stregua di orrende malattie) e perfino alle donne incinte, che solo per questo rischiano di perdere il lavoro. Vengono poi emarginati e discriminati i migranti, ai quali non si riconoscono i diritti più elementari solo perché hanno la pelle di un altro colore o perché parlano un’altra lingua e chiamano Dio con un altro nome. Cosa si direbbe di una società che decidesse di discriminare tutti quelli che hanno gli occhi azzurri o che parlano un certo dialetto? Il pregiudizio e la disuguaglianza condannano, emarginano e discriminano l’ex detenuto, l’alcolizzato, il nomade, lo straniero, il diverso e così via; fino a coinvolgere chiunque non sia perfettamente sano, bianco e di condizioni agiate, fino a giudicare le persone in base all’abbigliamento. Quale smacco per certi colonialisti inglesi che assistevano al crollo del loro impero ad opera di un omino seminudo coperto solo da uno straccio e da un paio di occhialini! (parlo di Gandhi naturalmente). E sono il pregiudizio e la disuguaglianza a escludere dalla vita sociale i giovani dei ceti meno ambienti; compreso quelli che aspirano a un diverso ideale di vita, più centrato su una socialità solidale e creativa che sul profitto; giovani che chiedono semplicemente di avere la possibilità di incontrarsi e di esprimersi, liberi dai meccanismi ossessivi dell’omologazione sociale, della competizione economica e dalle modalità già codificate dal mercato; senza l’obbligo di doversi comprare una suv, l’ultimo modello del telefonino, di vestire alla moda e di essere per forza dei consumatori, dei “buoni clienti” o polli da spennare. E solo per il loro modo di fare, di vestire e di esprimersi questi giovani sono giudicati fannulloni, strani, fuori dalle regole, pericolosi e così via. Come matti sono giudicati certi artisti, soprattutto quando non sono subito baciati dal successo. Ma l’unica differenza è che l’artista trasforma il delirio che è in tutti noi in opere d’arte: ed è tutta qui appunto la magia terapeutica dell’arte.

Per questo ci siamo rivisti abbastanza in questi ragazzi, perché l’atteggiamento nei loro confronti è spesso lo stesso che si ha nei confronti di coloro che vivono un disagio fisico o psichico. Come loro, anche i “matti” e i “disabili” fanno fatica a essere accettati come parte integrante della comunità; la quale preferisce delegare tutta la questione alle strutture terapeutiche. Neppure a loro è concessa piena cittadinanza, cioè la possibilità di partecipare alla vita sociale secondo le proprie esigenze e le proprie modalità espressive e di comportamento, spesso giudicate inadeguate, non conformi alla norma, né funzionali agli standard produttivi e di efficienza richiesti dall’imperativo dello sviluppo economico.
Scegliendo questi ragazzi come protagonisti del nostro lavoro, come metafora di un disagio più ampio e allargato alla società, avevamo la possibilità di affrontare il tema del pregiudizio in una dimensione più generale, che riguardasse persone anche diverse da noi, anche per dare un messaggio nel senso di un’attenzione verso chi non è esattamente come noi e vive un altro genere di disagio, comunque profondamente connesso col nostro e spesso causa di depressione. Questo per una serie di ragioni: evitare di parlare sempre e soltanto della nostra particolare condizione di disagio (e quindi per non essere auto-referenziali) e per non ridurre tutta la questione dentro i confini propri e specifici della sofferenza psichica. Così come abbiamo ragionato intorno al fatto che il pregiudizio nasce spesso dalla paura, dalla non conoscenza degli altri e dalla mancanza di dialogo tra le persone, tra le culture, tra i giovani e gli adulti, tra i cittadini e le istituzioni. Il “malato”, il diverso, lo straniero, l’altro da sé e tutto ciò che non conosciamo bene o che ignoriamo suscita in noi tutta una serie di meccanismi di difesa che possono trasformarsi facilmente in diffidenza, in paura e in pregiudizio e condurci a un’ostilità irrazionale e ingiustificata che ci porta a rifiutare e a ghettizzare chiunque abbia apparenza, idee e comportamenti appena un po’ differenti e che finiamo per vedere come una minaccia. Un’ostilità spesso alimentata dagli stessi media, che speculano sui luoghi comuni, sulle nostre paure e sull’ignoranza per ottenere facile consenso e tutelare gli interessi economici e politici di gruppi sociali particolari.
Ma la diffidenza, la paura e il pregiudizio sono superabili e svaniscono nel nulla, assieme a tutti i luoghi comuni che li accompagnano, attraverso il dialogo e il confronto, attraverso la reciproca conoscenza; imparando a rispettare e a vedere nelle diversità di cultura e di opinioni la ricchezza più straordinaria dell’umanità, proprio come la diversità delle specie animali e vegetali, delle acque e dei territori è la condizione indispensabile per la vita e per l’equilibrio ambientale su questo pianeta.

Con Cuori di strada abbiamo voluto proprio compiere questo tentativo: avvicinare mondi diversi, mondi che comunicano poco, o quasi per niente. Come quello di presentare al mondo delle persone ben integrate e bene inserite in società e nel lavoro quello di un certo tipo di giovanissimi che invece ne sono esclusi e che non si riconoscono nei modelli e negli stili di vita dominanti e che per questo o vivono da esclusi nei ghetti o preferiscono fondare comunità solidali utilizzando strutture abbandonate per avere un luogo dove poter socializzare.
Per farlo abbiamo cercato di interpretare e comprendere i loro più semplici desideri, le loro più spontanee attitudini, la loro musica, la loro voglia di esserci e di esprimersi, così come sono. Lo abbiamo fatto oltre il pregiudizio, pensando che molti di questi ragazzi sono nostri figli e nipoti, e che dobbiamo occuparci di loro, dando a loro spazio e voce, come a chiunque altro non li abbia. E con l’idea di un finale aperto (che qui non voglio anticipare) tenteremo in diretta di mettere in comunicazione e a confronto questi mondi - anche se solo nella finzione teatrale - che appaiono così separati, sperando che sia di buono auspicio. Non è un caso che nel corso della vicenda che raccontiamo avvengano delle trasformazioni importanti, simbolicamente significative e che marcano un profondo cambiamento di paradigma.

Al principio vi sono due gruppi di giovani ostili uno all’altro che si confrontano in atteggiamenti aggressivi, senza neppure tentare di parlare, che poi invece scoprono un altro modo di comunicare, non più violento ma fondato sul dialogo e sull’amicizia, e che alla fine giungono addirittura a rimettere le loro sorti esistenziali e la risoluzione di un conflitto (che naturalmente li riguarda ma che è più ampio e più grande di loro) nelle mani di un pubblico che neppure conosce.
Un segno di disponibilità e di consapevolezza impensabile all’inizio della storia.
Non è stato facile mettersi nei panni di questi giovani, muoversi e ballare alla loro maniera e così via; ma è proprio questo il messaggio del teatro: sviluppare la capacità e la sensibilità di vedersi nell’altro e comprenderlo. Io è un altro, scrive Rimbaud. Certo il nostro è solo un musical, che potrà apparire anche un po’ ingenuo, ma una storia - per quanto possa apparire banale - contiene e implica sempre molto di più di quello che semplicemente viene raccontato o rappresentato. Spesso il prodotto finale è solo una sintesi estrema (ridotta ad azioni simboliche che poi vanno nuovamente sviluppate), una sintesi prosciugata di tutto quello che si è svolto in laboratorio, cioè durante il processo di elaborazione e di preparazione. Un processo che già vale per se stesso, dove si cresce e dove si fanno scoperte entusiasmanti e sorprendenti che investono il sé, gli altri e le cose del mondo. Una forma di training a tutto campo che comporta un coinvolgimento faticoso, quasi totale, sia a livello individuale che collettivo, fisico, emotivo, cognitivo e relazionale. Soprattutto quando questo accade in un contesto problematico dove l’elaborazione e la realizzazione di un progetto narrativo complesso non è un dato scontato, anzi dove di per sé è già un dato straordinario. Dietro c’è tutto un percorso, un lavoro difficile, un insieme di sforzi dei singoli e del gruppo, che per alcuni ha significato un impegno eccezionale; c’è un anno di confronti, di discussioni, di approfondimenti che (insieme a ciò che si è fatto negli anni precedenti) hanno inciso profondamente sulla consapevolezza di chi vi ha partecipato; regista, operatori e ospiti insieme.

 
 
Torna ai contenuti | Torna al menu